martedì 21 ottobre 2014

I Balcani, il calcio e la politica (3/3)

Prima puntata: gli scontri tra Dinamo Zagabria e Stella Rossa e il preludio della guerra
Seconda puntata: il ruolo del comandante Arkan

Ultimo post di questo viaggio nei tormentati Balcani e stavolta si parla di uno dei calciatori più carismatici e controversi usciti da quella ragione: Sinisa Mihajlovic.
Nato a Vukovar nel 1969, cresce nella Vojvodina prima di essere comprato dalla Stella Rossa nell'inverno 1991; nella squadra di Belgrado vince anche una coppa dei Campioni e una coppa Intercontinentale, prima di finire in quello che vent'anni fa era certamente il sogno di buona parte dei calciatori: il campionato italiano! Ecco allora Mihajlovic che viene acquistato dalla Roma; due stagioni in giallorosso, poi Sampdoria fino al 1998 quando i blucerchiati retrocedono in serie B. Torna a Roma, questa volta però con la casacca della Lazio: sei stagioni entusiasmanti, nonostante l'età non più verdissima. Per chiudere i due anni all'Inter, più con un ruolo di chioccia all'interno dello spogliatoio che giocatore, fino a quando al termine della stagione 2006 appende gli scarpini al chiodo.
Capace di segnare 97 reti in carriera, una cifra sbalorditiva per un difensore! Merito soprattutto dei suoi calci da fermo, rigori e soprattutto punizioni; ha anche stabilito il record di reti segnate su punizione in una partita, 3 in occasione di un Lazio-Sampdoria finito 5-2 (eguagliato il record che curiosamente deteneva in precedenza un altro laziale, Beppe Signori che in un Lazio-Atalanta 3-1 del 1994 segnò due punizioni di seconda e una punizione diretta, mentre Mihajlovic ha realizzato tutte le sue tre reti con punizioni dirette). Nato come centrocampista esterno, in Italia ha progressivamente arretrato il raggio d'azione fino a trovare la sua collocazione naturale col mister Sven-Göran Eriksson che alla Samp lo schiera per la prima volta al centro della difesa dove può sfruttare il suo lancio millimetrico e il suo senso della posizione che compensa la scarsa velocità.

Un giovane Mihajlovic e Arkan
Ma Mihajlovic è un personaggio che oltre alle sue giocate sul campo da calcio, ha fatto discutere per le sue prese di posizione. La questione più spinosa: l'amicizia con il comandante Arkan e con Slobodan Milosevic (tutti e due accusati di crimini contro l'umanità). Nel post precedente, avevo accennato allo striscione dedicato dai tifosi di destra della Lazio alla memoria di Arkan ("Onore alla tigre Arkan") subito dopo la sua morte e della reazione del croato Boksic, compagno di squadra di Mihajlovic. Si dice addirittura che lo striscione sia stato commissionato direttamente da Sinisa; quello che è certo è che il giocatore fece uscire un necrologio su un giornale serbo per l'amico assassinato. A distanza di anni il giocatore ricorda così quel momento: "Lo rifarei il necrologio perché Arkan era un mio amico: lui è stato un eroe per il popolo serbo. Era un mio amico vero, era il capo degli ultras della Stella Rossa quando io giocavo lì. Io gli amici non li tradisco né li rinnego. Conosco tanta gente, anche mafiosi, ma non per questo io sono così. Rifarei il suo necrologio e tutti quelli che ho fatto per altri, Da fuori, seduti in poltrona, è stato facile puntare il dito". Ancora su Arkan: "Non rinnego quel necrologio, ma non difendo i suoi crimini. Quelli restano. Sono orribili. E li condanno. Come tutti i crimini commessi, da una parte e dall'altra. In una guerra civile non esistono i buoni e i cattivi".

Altra amicizia scomoda, quella con Milosevic: "Ci ho parlato tre-quattro volte. Aveva una mia maglietta della Stella Rossa di Belgrado e mi diceva 'Sinisa se tutti i serbi fossero come te ci sarebbero meno problemi in questa terra'. So dei crimini attribuiti a Milosevic, ma nel momento in cui la Serbia viene attaccata, io difendo il mio popolo e chi lo rappresenta". Parole importanti, così come quando parla della guerra civile che ha spezzato un paese e anche la sua famiglia: "Io sono nato a Vukovar, i croati erano maggioranza, noi serbi minoranza. Nel 1991 c’era la caccia al serbo: gente che per anni aveva vissuto insieme da un giorno all’altro si sparava addosso. Il mio migliore amico ha devastato la mia casa. Quando i miei genitori hanno lasciato Vukovar per Belgrado, mio zio, croato e fratello di mia madre, le ha telefonato: 'Perché sei scappata? Dovevi rimanere qui, così ammazzavamo tuo marito, quel porco serbo di merda'. Mesi dopo mio zio fu catturato da Arkan, stava per essere ucciso, ma gli trovarono addosso il mio numero di cellulare. Mi chiamarono, e riuscii a salvargli la vita". L'ultima volta che Mihajlovic è stato nella sua Vukovar è stato nel 1991: "Era rasa al suolo, non riuscivo neanche a orientarmi. Solo scheletri di palazzi e macchine ammassate per creare trincee. Spettrale. Ricordo lo sguardo di due ragazzini di 10 anni, imbracciavano i mitra. Avevano occhi da uomini in corpi da bambini. Occhi tristi che avevano già visto tutto, tranne l'infanzia. Non sono più tornato a Vukovar". La guerra con tutti gli orrori che si porta dietro; come quando a Roma, Sinisa apre il Messaggero e vede la foto di due persone che conosce, ormai cadaveri con il titolo 'Due croati uccisi da cecchini serbi'. "Uno aveva una pallottola in fronte. Era un mio caro amico, serbo. Lì ho capito, su di noi hanno raccontato tante cose. Troppe non vere".
E' un nostalgico di Tito; "Slavi, cattolici, ortodossi, musulmani: solo il generale è riuscito a tenere tutti insieme, del blocco dei Paesi dell’Est la Jugoslavia era il migliore. I miei erano gente umile, operai, ma non ci mancava niente. Con lui la Jugoslavia era il paese più bello del mondo, insieme all’Italia che io amo e che oggi si sta rovinando", ma non è un fascista ("sono più comunista di tanti") piuttosto un nazionalista se significa "amare la mia terra e la mia nazione".

Uno con le idee chiare Mihajlovic; durante la sua parentesi da C.T. serbo escluse il talentuoso Adem Ljajic perché non cantava l'inno insieme ai compagni. Ljajic è figlio di bosniaci e di religione mussulmana, ma le regole fissate da Mihajlovic erano chiare, niente inno, niente convocazioni: "Avevamo una Nazionale fortissima: ma ognuno faceva come voleva, per questo non vincevamo niente. Ho capito dopo che la disciplina è fondamentale".

Ha dato del "negro di merda" a Patrick Viera, ha sputato ad Adrian Mutu e si è preso a testate con Ibrahimovic e curiosamente se li è sempre ritrovati in squadra durante la sua carriera da allenatore. E' sceso in campo con una maglietta con disegnato un bersaglio come protesta contro i bombardamenti del 1999. Ha definito Ratko Mladic un grande guerriero che combatte per il suo popolo. Personaggio controverso ma mai banale, questo è sicuro, totalmente diverso dalla maggior parte dei suoi colleghi.

9 ottobre 1999, ultima gara per la qualificazione agli Europei. Dentro o fuori. "Lo stadio di Zagabria era un vulcano. Polizia ovunque. Avevamo ancora la guerra sulla pelle. In campo c'erano tanti ex compagni della vecchia Nazionale. Stavolta uno contro l'altro. Io ero uno di loro...". Il campo di gioco è una bolgia: guardo verso la curva croata, c'è uno striscione 'Vukovar 1991', la città simbolo della guerra, dove sono nato e cresciuto. Mi avvicino, mi inginocchio e mi faccio il segno della croce per ricordare i serbi caduti. Lo stadio per poco non viene giù. Mi urlano di tutto. Ma ogni volta che batto una punizione o un calcio d'angolo non vola una mosca per il timore. Prendo un palo, una traversa e faccio due assist per i gol di Mijatovic e Stankovic: 2-2, qualificazione ed eliminazione della Croazia. Sui giornali serbi prendo 10 in pagella. Quella resta la partita più sentita della mia carriera, non la dimenticherò mai".

Fonti: Gazzetta dello sport - Corriere della Sera

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